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  COME VEDERE L'ARCHITETTURA CONTEMPORANEA HOW TO SEE CONTEMPORARY ARCHITECTURE
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MARIO BOTTA. SACRO E PROFANO [NATURE / MAXXI]
Mario Botta, Sacro e Profano, MAXXIQuesta rassegna di alcune architetture riferite allo spazio del sacro e alle istituzioni civili documenta un percorso professionale di alcuni decenni in differenti contesti territoriali. Ho selezionato le opere che hanno trovato attuazione, nella convinzione che il costruito, al di là dell’idea dell’architetto, risulti infinitamente più ricco e testimoni lo spirito della comunità e della committenza interpretando il tempo del vivere collettivo. Ciascuna di queste architetture racconta una propria storia e le soluzioni proposte sono riferite a circostanze specifiche, quindi senza alcuna pretesa di “impossibili” teorizzazioni. Si tratta di un percorso di lavoro svolto in una realtà multiconfessionale dentro una società secolarizzata, dove l’architetto ha trovato le ragioni del proprio impegno nei risvolti nascosti e misteriosi del “sacro”, capaci di trasmettere una memoria ancestrale ancora intatta, in grado di giungere fino a noi. I temi del “sacro” – il silenzio, la meditazione e la preghiera – pur nelle contraddizioni del vivere quotidiano, evidenziano, con molta più incisività rispetto ad altri temi “profani”, gli aspetti primigeni che permettono di rintracciare le ragioni d’essere del fatto architettonico. Penso: alla luce e all’ombra, alla gravità e alla leggerezza, al muro e alla trasparenza, al percorso e alla soglia, al finito e all’infinito, alla forza dell’opera costruita, al suo essere parte attiva di uno scenario di vita che il cittadino incontra ogni giorno. Ma la riscoperta dei valori originari del costruire, semplici ed essenziali, richiede una costante rilettura critica. Per troppi anni l’architettura è stata usata come strumento sfacciatamente perverso a servizio del mercato e dei consumi indotti dalla globalizzazione. Ora, per l’architetto, le costrizioni operative della professione rischiano di annientare ogni spazio creativo dentro un’attualità scialba e soffocante, incapace di reagire all’appiattimento dei valori, contrabbandato dalla società dei consumi come fosse una conquista. Credo che per esercitare questa nostra attività (il costruire) sia necessario trovare nuove forme di pensiero e di azione ripartendo dai principi del mestiere, nella certezza che anche le forme espressive del contemporaneo possano elaborare prospettive capaci di interpretare le spinte innovative, come è avvenuto nel grande passato.


Mario Botta, Sacro e Profano, MAXXI, Cymbalista Synagogue and Jewis Heritage Center, Tel AvivEdifici di culto in una società secolarizzata
Costruire luoghi di culto, in una società secolarizzata e connotata dall’esasperato individualismo della civiltà dei consumi, può oggi apparire un intendimento azzardato, antistorico, aneddotico o comunque marginale rispetto alle spinte egemoniche di mercato e finanza che spadroneggiano nel controllo degli stili di vita. Eppure, dentro le trame di queste differenti tipologie di incontri, di silenzi e di preghiera, attraverso i secoli insistentemente frequentate dalla cultura artistica, permangono riflessioni, intuizioni e speranze che hanno modellato l’identità del nostro vivere collettivo. È la generazione contemporanea che nel breve scorrere di pochi decenni sembra aver smarrito gli ideali e i valori che avevano motivato la “ricerca paziente” degli architetti nostri maestri. Penso a Rudolf Schwarz e allo straordinario sodalizio avuto con Romano Guardini, penso a Le Corbusier, a Niemeyer, ad Aalto, a Michelucci, a Saarinen, a Tange, a Utzon, a Kahn, solo per ricordare gli architetti più affascinanti che hanno operato in seno alla cultura moderna. Architetti che hanno saputo interpretare le attese del proprio tempo e fare dei luoghi di culto modelli significativi per l’organizzazione dello spazio di vita. Oggi appare evidente come, accanto alle conquiste tecniche e scientifiche indotte dalla globalizzazione, si stia diffondendo una omologazione di valori e comportamenti, un livellamento dell’organizzazione dell’habitat, delle città e del territorio. In queste condizioni anche la centralità che i luoghi di culto occupavano dentro i tessuti connettivi dell’abitare sta progressivamente scomparendo, facendo sì che vengano tutt’al più interpretati come memorie o come servizi, al pari di altre componenti della città.
I significati simbolici, le valenze metaforiche, le permanenze di una continuità con la storia e con la nostra stessa identità, sono alcuni dei valori della costruzione dei luoghi di culto dei quali ci ha reso orfani la destabilizzante svolta antropologica e culturale indotta dall’imperante globalizzazione. Nelle nuove interpretazioni degli edifici di culto l’architettura, salvo rari esempi, sembra arrancare con risposte inadeguate, sopraffatta da domande tecnicofunzionali affrontate con troppa disinvoltura, sia dai committenti che dai progettisti. Al di là delle risposte alle esigenze liturgiche resta, per l’architetto, la responsabilità di una sintesi progettuale tale da far sì che un edificio di culto costituisca anche un luogo di identità e di immagine, capace di comunicare la memoria di un passato che chiede di essere interpretato con la sensibilità e la cultura del nostro tempo.

Mario Botta, Sacro e Profano, MAXXI, Chiesa del Santo Volto, TorinoL’architettura porta con sé l’idea del sacro
Per la costruzione di un’opera d’architettura il primo atto risiede nel tracciarne il perimetro, nel distinguere e separare l’interno dall’esterno: un atto “sacro” che isola una nuova realtà architettonica autonoma rispetto al “macrocosmo” infinito che la circonda. Inoltre, questo gesto relaziona inscindibilmente una porzione di territorio scelto dall’uomo alla terra-madre, alla geografia, alla cultura e alla storia di quel sito. Un gesto – quello di definire un perimetro – che trasforma una condizione di natura in una condizione di cultura. Lo spirito dell’uomo ritaglia e modella una nuova realtà con un processo razionale e colto, compiuto per le proprie esigenze e, nel contempo, traccia nuovi equilibri con l’ambiente circostante. Costruire è un’attività dettata da una volontà, un modo con il quale l’uomo si confronta con lo scorrere senza fine del tempo. La creazione di nuovi rapporti spaziali fra il manufatto e l’intorno resta il vero obiettivo dell’atto creativo. Testimone simbolo di questa trasformazione, oltre al tracciato perimetrale, è l’elemento emblematico della soglia: segno di transito, di passaggio, di distinzione fra due realtà, luogo di articolazione fra il dentro e il fuori. Nello spazio dei luoghi di culto la realtà dell’interno modella una nuova immagine, una condizione “finita” per le attività di silenzio, di contemplazione, di trascendenza e di mistero. È con la definizione di uno spazio architettonico finito che al fruitore viene dato di vivere una condizione di infinito. In taluni momenti particolarmente felici l’architettura può sottolineare una situazione di attesa, di trascendenza, dove passato e presente convergono verso memorie ancestrali. A tal proposito, Le Corbusier parla di uno spazio di confronto con l’infinito, con lo spazio “indicibile”... dove per l’uomo “è ora di lasciare riaffiorare un’intuizione memore di esperienze acquisite, assimilate, forse dimenticate e riemerse in forma incosciente. Lo spazio è dentro di noi, l’opera può evocarlo ed esso può rivelarsi a coloro che lo meritano, a chi entra in sintonia con il mondo creato dell’opera, un vero altro mondo. Si spalanca allora un’immensa profondità che cancella i muri, scaccia le presenze contingenti, compie il miracolo dello spazio indicibile”.

Mario Botta, Sacro e profano, MAXXI, Cappella di Santa Maria degli Angeli, Monte TamaroIl territorio della memoria
Le architetture prediligono il silenzio. Succede anche nel bel mezzo del gran correre di ogni giorno dentro la città o ai margini di qualche maldestra urbanizzazione, capita di essere attratti da architetture che offrono immagini e costruzioni che richiamano la nostra attenzione. Basta uno squarcio inconsueto o un profilo architettonico significativo che riconosciamo come “amico” di un passato che ci ha nutrito, per aprirci nuove prospettive dentro il paesaggio dell’intorno e permetterci di distinguere i segni della nostra identità. Nella Babele dei linguaggi che ci circondano, le architetture del passato ostentano i loro tratti originari, espongono i loro volti plasmati dal tempo o ricordano testimonianze delle primitive funzioni. Spesso riconosciamo in esse immagini d’altri tempi, tracce catastali o reperti sopravvissuti alle nuove urbanizzazioni, che ancora sorprendono per la loro presenza e la loro funzionalità. Le architetture dentro la città sono tessere di una trama più estesa che narra le dispute, le contraddizioni e le passioni di comunità estinte, di cui serbiamo ricordo. La ricchezza dei nostri spazi è custodita dalla complessità delle stratificazioni storiche, segni di un passato che ci appartiene. Se ben riflettiamo, il territorio della memoria è una realtà viva entro la quale siamo chiamati a operare; il passato non è nient’altro che la forma più autentica del nostro tempo.
Le presenze discrete (a volte marginali rispetto allo svolgersi frenetico della vita quotidiana) testimoniano un passato che continua a resistere nella cultura occidentale, segnano presenze arcaiche che nel tessuto urbano mantengono ancora posizioni strategiche. Gli edifici di culto, al di là della loro testimonianza religiosa, narrano della continuità di un passato millenario di cui oggi siamo ospiti “protempore”. È pressoché impossibile distinguere la forza evocativa che sprigiona da uno spazio di preghiera, dalla memoria profonda che connota il nostro essere parti di una comunità più vasta. I luoghi di culto, più facilmente di altri legati alle attività quotidiane (uffici, banche, centri commerciali e altro), trovano nelle architetture forme, spazi e luce congeniali alle loro funzioni di pausa e di contemplazione; esercitano un richiamo ai valori più profondi del vivere collettivo modellato dalle pietre, un richiamo diretto ai valori primigeni. Il bisogno di immensità è parte delle aspirazioni dell’uomo, così come l’anelito verso il mistero che, di tanto in tanto, lo “spazio indicibile” di lecorbusieriana memoria riesce ancora a evocare.

Mario Botta, Sacro e profano, MAXXI, Granatkapelle, Lake Zillertal, Austria

Liturgia e architettura
Mario Botta, Sacro e Profano, MAXXI, Mogno, Chiesa di San Giovanni BattistaL’architetto e monaco olandese Hans van der Laan definisce la liturgia come “l’insieme dei simboli, dei canti e dei gesti in cui la Chiesa esprime e manifesta la sua fede...” e in un’altra occasione afferma “...la liturgia è un atto divino che si svolge sulla terra”. La liturgia richiede che il progettista predisponga uno spazio ecclesiale semplice e chiaro nelle funzioni e negli arredi, per favorire la celebrazione dei riti legati alla pratica devozionale. Tuttavia, una corretta organizzazione degli spazi è necessaria ma non sufficiente. Rudolf Schwarz, insigne personalità della cultura architettonica che ha traghettato le esigenze liturgiche nelle forme espressive del Moderno, sottolineava che la distribuzione funzionale deve essere accompagnata da una qualità formale degli spazi e ricordava come “lo scopo dell’architettura è la creazione di luoghi”. Schwarz insisteva sul concetto di luogo inteso non solo come uno spazio attorno a determinate azioni, ma come una realtà concreta con una propria immagine, capace di acquisire una valenza simbolica, di “rendere visibile” il culto e i riti che vi si celebrano. Tutto questo, ovviamente, riferito alle capacità metaforiche del linguaggio architettonico. Anche lo studioso Christian Norberg-Schulz esemplifica questo concetto rifacendosi all’affermazione di Paul Klee secondo il quale “l’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è” . Rendere visibile un messaggio, al di là delle risposte tecniche e liturgiche, è questa la sfida richiesta all’architetto per far sì che lo spazio preposto si trasformi in un luogo che preservi una continuità con la storia e riattualizzi un passato che ci appartiene come forma della nostra identità. L’organizzazione liturgica è strumento di guida per le relazioni funzionali tra la centralità dell’altare (luogo del sacrificio), l’ambone (luogo della parola) e l’assemblea (luogo dei fedeli). È chiaro che con questa accezione la liturgia si configura come una componente strutturale della celebrazione ecclesiale. L’interpretazione si allontana dalle disinvolte proposte postsessantottine dove lo spazio della chiesa era visto unicamente come spazio di incontro. L’edificio di culto, al di là delle funzioni alle quali deve rispondere, deve rappresentare una presenza capace di testimoniare il proprio essere-oggi-in-un-luogo come espressione formale della nostra cultura. Acquisire uno statuto di continuità (e nel contempo di rottura, di discontinuità con le forme del passato) è il difficile compito che le tradizioni religiose declinano alla contemporaneità.
Il bisogno di sacro sussiste nello spirito dell’uomo che, come ricorda Paolo Portoghesi, “attiene ai fondamenti stessi del reale, alla struttura degli esseri e delle cose”. Purtroppo è la cultura dei nostri giorni che arranca dentro le contraddizioni di una società secolarizzata nel formulare forme e linguaggi convincenti per esprimere adeguatamente un bisogno semplice e primordiale.

Mario Botta, Sacro e Profano, MAXXI, Cappella, Azzano di SeravezzaCreatività e tradizione
Creatività e tradizione sono termini apparentemente antitetici. Nella creatività riconosciamo un atteggiamento teso a formulare nuovi comportamenti, nella tradizione, invece, a conservarli. Ma dentro il percorso progettuale questa interpretazione non sempre risulta appropriata. In particolare in questi tempi, dove molti aspetti del vivere appaiono omologati dai comportamenti dettati dalla globalizzazione, osserviamo un rovesciamento dei ruoli. Sovente, la creatività può essere interpretata come “servizio” di consolidamento delle leggi di mercato e la tradizione invece come testimone di valori vissuti nel passato, talvolta dimenticati, ma che una volta riscoperti risuonano “eversivi”. Sussiste sempre l’equivoco che il nuovo equivalga al progresso (ma ora si rivela fragile ed effimero) e che la tradizione sia vista come entità ancora in grado di far fronte alle contraddizioni del vivere. Per l’architetto il rapporto con la memoria del passato non può che risuonare creativo. Carlo Scarpa diceva che “l’unico modo per rispettare l’antico è quello di essere autenticamente moderni”. Questo comporta la consapevolezza del senso storico del proprio agire, dell’essere attore all’interno della contemporaneità. Diviene allora evidente che l’opera d’arte, come quella di architettura, si confronta necessariamente anche con i lavori che l’hanno preceduta nel corso della storia. Così l’opera nuova diviene parte dell’insieme della cultura artistica; passato e presente rappresentano la storia dell’uomo sulla terra dove è possibile un continuo dialogo e confronto tra forme espressive storiche diverse, ognuna delle quali ha interpretato al meglio le aspirazioni del proprio tempo. Nell’arte, semplicemente, si snoda la testimonianza delle diverse forme espressive, poiché in essa non esiste evoluzione ma uno spirito in continua trasformazione: Giotto offre un’interpretazione sublime della sua storia, così come Picasso si presenta figlio del proprio tempo. Per questo è possibile riconoscere affinità elettive di opere contemporanee con altre di un passato anche lontano, e viceversa. L’insieme della produzione artistica, dai primitivi ai nostri giorni, resta un quadro globale di riferimento, una rassegna in perenne aggiornamento, con la quale le opere dell’oggi si confrontano con quelle del passato. Passato che a sua volta potrà avere nuove interpretazioni, un modo attraverso il quale il presente modifica il passato. Il quadro della storia artistica offre continuamente un bilancio variabile in funzione di un dare-avere reciproco fra i valori del passato e quelli del presente. Per l’architetto la memoria del passato non può essere altro che un presente. Creatività e tradizione sono ambedue forme espressive della stessa storia.

Mario Botta, Sacro e profano, MAXXI, Cappella di Santa Maria degli Angeli, Monte TamaroArchitettura e contesto
Un equivoco che riemerge con insistenza nell’interpretazione dell’opera di architettura, soprattutto moderna e contemporanea, è quello che valuta la singola opera, o più in generale il manufatto, come se fosse un oggetto autonomo e non una realtà che interagisce costantemente con l’intorno. L’architettura, nata per far fronte a richieste tecnico-funzionali, è parte attiva del paesaggio, dell’ambiente, del nostro vivere; non è un prodotto a sé stante creato in un atelier o in un laboratorio, come può avvenire per una scultura. Il sito dove nasce un’architettura è sempre un unicum sull’intera superficie terrestre, che custodisce realtà geografiche, storiche e culturali con il quale il nuovo intervento deve confrontarsi e che diventa parte dell’opera: non esiste un’architettura che non abbia un proprio territorio. Si può parlare di un processo osmotico nel quale l’opera di architettura e il paesaggio interagiscono in un rapporto di interscambio reciproco che, di volta in volta, modella gli equilibri spaziali esistenti. L’unicità dell’opera di architettura si trasforma in parte del paesaggio che connota l’immagine di quel luogo specifico. Dunque l’opera costruita appartiene al territorio, che nel suo insieme, con la sua storia e la sua memoria, appartiene a sua volta all’opera. È dentro questa continua “contaminazione” tra manufatto e territorio che deve essere valutata l’opera di architettura. È attraverso la forza dei reciproci rapporti spaziali che nasce la realtà di un nuovo paesaggio. Per un’esemplificazione che può facilitare la comprensione possiamo richiamare l’intervento di Le Corbusier a Ronchamp, dove il nuovo equilibrio ambientale stabilitosi fra la chiesa e la collina ha radicalmente trasformato la lettura delle due componenti: è infatti impossibile pensare alla chiesa senza la collina o immaginare la collina senza la chiesa. Le due realtà si sono fuse in una sola immagine, il territorio appartiene all’architettura e viceversa. Radicalmente opposto è quanto registriamo nella maggior parte delle costruzioni contemporanee, dove ogni architettura diviene intercambiabile anche in altri contesti. L’autoreferenzialità dell’opera è tale che lo spazio dell’intorno resterebbe pressoché inalterato anche se non ci fosse il nuovo intervento. Molte volte lo spazio viene considerato residuo.
Esattamente l’opposto di quanto avviene a Ronchamp, dove il manufatto di Le Corbusier irradia valori spaziali capaci di costruire un nuovo paesaggio.

Mario Botta, Sacro e profano, MAXXI, San Carlino, Lugano, RomaL’enigma della bellezza
Di fronte al foglio bianco il termine “bellezza” suscita interesse e nel contempo timore: capita di scrivere anche di cose che non si conoscono, nella speranza o nell’illusione di rintracciare aspetti da riportare alla nostra comprensione. La ricerca della bellezza resta una delle aspirazioni più forti dell’animo umano; se ne parla forse solamente perché se ne avverte sempre più una struggente mancanza. All’architetto talvolta si presentano improvvisi spiragli di possibile comprensione che ben presto si rivelano approssimativi e sfuggenti, come se la bellezza fosse una chimera irraggiungibile. Nell’opera di architettura il bello, il vero e il giusto si presentano come valori inscindibili l’uno dall’altro. Nel processo di costruzione è impossibile separare la ricerca della bellezza dalle regole costruttive, statiche, tecniche e funzionali, o dall’impegno per la definizione di un nuovo equilibrio ambientale capace di rispondere alle attese sociali. Ma la capacità evocativa della bellezza va oltre la risposta a quei valori. Un’opera di architettura può essere buona, corretta e funzionale senza essere necessariamente un’opera “bella”. Dentro il percorso progettuale la bellezza (quando esiste) appare improvvisa come un dono inaspettato, un’immagine che interpreta le attese del proprio tempo e insieme indica traiettorie di ricerca nel rapporto tra manufatto e contesto. La “bellezza” si presenta come una realtà virtuale di cui non è possibile avere conoscenza a priori. Esige una sperimentazione diretta e offre la propria identità solo a posteriori. Con approssimazione possiamo azzardare e dire che la bellezza si manifesta quando viene a crearsi un intensissimo rapporto fra una realtà materiale (opera o evento) e un’idea immateriale di riferimento: due componenti che si relazionano fino a identificarsi in un insieme con un felice equilibrio che, silenziosamente, ci appaga e azzera tutti i problemi. “È la bellezza stessa che ci insegna uno stretto rapporto fra reale e irreale, fra materialità e immaterialità, fra cosa e idea”. Questa sintesi richiede il coinvolgimento del fruitore, perché la bellezza ha senso di esistere solo se è esperita. D’altra parte la fruizione non può che assumere valenze soggettive, perché l’osservatore è sempre influenzato dai rapporti con le cose, con l’intorno e con lo spirito del tempo che lo circonda, per cui nascono variabili in funzione delle oscillazioni del gusto e delle declinazioni stilistiche. Nei confronti della bellezza ognuno ha un proprio approccio e proprie valutazioni autobiografiche; poi ci sono ovviamente anche “permanenze” dove si riconoscono nessi di valori comuni. Per noi che la rincorriamo come possibile soluzione alla complessità dei problemi del costruire e come ragione del nostro impegno, la bellezza resta un enigma legato alla leggerezza del fatto poetico, inspiegabile a parole e inarrivabile con il pensiero ma che, quando si manifesta, sorprende per la semplicità e la gratuità imprevedibile del suo essere parte del nostro mondo.

Mario Botta, Sacro e Profano, MAXXI, Chiesa del Santo Volto, TorinoCostruire luoghi identitari
È indubbio che i recenti strumenti di comunicazione digitale hanno stravolto la nozione di tempo e accorciato le distanze fra gli spazi, condizionando comportamenti e abitudini che, per secoli, avevano scandito la vita degli uomini sulla terra. La pausa pandemica che stiamo vivendo ormai da due anni, ci insegna invece quanto doloroso sia il totale azzeramento del tempo e dello spazio nelle relazioni quotidiane. È la configurazione geografica del mondo in rapporto al nostro essere uomini sulla crosta terrestre che modifica le nostre interpretazioni e i nostri comportamenti. Penso che per l’architetto sia importante costruire e agire in un mondo interconnesso, ma anche di ristabilire la centralità del proprio essere una presenza attiva con un proprio spazio fisico e una memoria ancora in grado di vivere emanate dal “potere dei luoghi”, dalla loro identità, da stati d’animo di una comunità nella quale si riconosce. Forse è giunto il momento di coltivare una nuova “geografia di prossimità” dove gli spazi dell’intorno permettono di stabilire rapporti materiali e godere di momenti dei quali abbiamo già avuto esperienza e che ancora possono rassicurarci. L’atmosfera creata dagli spazi non è uno stato d’animo neutro: la storia, il paesaggio e anche il vissuto di un recente passato ne sono parte attiva.


Mario Botta, Sacro e Profano, MAXXI

Mario Botta, Sacro e Profano, MART, RoveretoALCUNI EDIFICI ISTITUZIONALI

il Mart di Trento e Rovereto
Dentro la stratificazione di un centro storico europeo, la complessità urbana richiede scelte capaci di trasformare i modelli distributivi e funzionali del tessuto storico. Corso Bettini a Rovereto è il tracciato stradale che conduce verso Trento, correndo parallelo al pendio della collina. Per inserire il programma del nuovo MART è bastata la decisione di aprire una breccia nel muro di confine con la collina per far sì che si venisse a creare un vicolo perpendicolare all’asse viario che immette in una piazza circolare di snodo per la distribuzione delle diverse funzioni. È il tessuto storico che, attraverso una ricucitura, può organizzare i nuovi spazi per comporre un’immagine semplice e totemica (la piazza) facilmente leggibile con un’immagine geometrica dei volumi che contrasta con il paesaggio naturale dell’intorno. Il manufatto architettonico ricerca sempre un confronto, un dialogo, un contrasto fra le leggi della geometria razionale e le forme organiche dettate dalla natura.

Il Museo d’Arte Moderna Bechtler a Charlotte, Carolina del Nord
Il progetto è quello di un museo d’arte moderna e contemporanea per una collezione d’arte europea. La città ha individuato una zona centrale dove lo spazio collettivo si dilata fino a inglobare l’edificio. Il progetto modella uno spazio di transizione coperto fra interno e l’area pubblica che lo circonda. Un modo per far sì che si accentui la compenetrazione fra pubblico e privato. L’edificio non presenta un ingresso autonomo ma uno spazio di transizione (un “broletto”) che avvolge il visitatore: una vera piazza coperta che diviene prolungamento del tracciato urbano.

Il ristorante sul Monte Generoso, Svizzera
Un’opera di architettura può avere il privilegio di essere una forma fisica che emerge dalla crosta terrestre, mostrandosi in tutta le sua evidenza più che in altri contesti. Al di fuor del volume costruito è l’immensità dell’intorno, del cielo, del cosmo e del tempo che dialoga con l’architettura; una condizione privilegiata che invita lo sguardo dell’osservatore oltre il finito. La misura dell’intorno può esser motivo per comporre un’immagine totemica, semplice ed essenziale, facilmente leggibile, con una geometria volumetrica che contrasta con l’andamento organico del paesaggio circostante.

Le terme nella città di Baden, Svizzera
Le acque delle terme di Baden sono documentate sin dai tempi romani e insistono lungo un’ansa del fiume Limmat, che esce dalla città di Zurigo. Ma la città di Baden non aveva saputo finora valorizzare questa straordinaria ricchezza: uno spazio d’acqua naturale che scorre lungo le due sponde della città. Da secoli vi è un dono della terra che offre acque termali a 47 gradi; un privilegio ambientale e paesaggistico che è divenuto l’identità storica del luogo. La realizzazione delle nuove terme è recente, l’acqua che sgorga dalla terra è un dono straordinario che modifica il rapporto dei cittadini con la loro storia (pour cultiver le corps et l’esprit, Le Corbusier).


Vivere e lavorare nella Svizzera italiana
È un modo di vivere una condizione di frontiera, con nuove centralità interconnesse con il mondo globale, fra situazioni storichepolitiche-economiche con molti scarti e molte contraddizioni che richiedono flessibilità nei comportamenti e rispetto reciproco. Ma il privilegio di vivere la contiguità con la storia della cultura italiana risuona come un immenso dono che ogni giorno illumina le mie giornate di lavoro.



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